Il Monte Bego: un sito archeoastronomico dell’Età del Bronzo.
Marco Angiolo Innocenti
Corso di Laurea in Scienze dei Beni Culturali e Ambientali
Università di Ferrara
Parole chiave:
· Incisione rupestre, corniforme, tauriforme, reticolare, antropomorfa, allineamento, eclittica, punto vernale, solstizio, equinozio, azimut, sorgere eliaco di un astro, eclisse, costellazione, costellazioni zodiacali.
Bibliografia essenziale:
Dicembre 1999).
·
Chantal
Jègues-Wolkiewiez – Des gravures de la vallée des
Merveilles au ciel du Mont Bégo. Approche ethnoastronomique d’un temple
luni-solaire du Néolithique – Université de Nice Sophia-Antipolis,
1997 – Codirection : Jean-Michel Le Contel et Jean-Pierre
Jardel.
·
Henry de
Lumley – Le Mont Bégo : vallées des Merveilles
et de Fontanalba – Guides archéologiques de la France – Editions
Imprimerie Nationale, 1996
·
Henry de
Lumley – Le grandiose et le sacré. Gravures
rupestres protohistoriques et historiques de la région du Mont Bégo –
Editions Edisud, 1995
Abstract
Numerosi ritrovamenti archeologici in tutto il mondo attestano la capacità degli antichi di compiere accurate osservazioni degli astri e di servirsene, in forma anche di elaborati rituali religiosi e di culto, come strumento di previsione per le proprie necessità agro-pastorali e per la realizzazione di complessi calendari agricoli. Il monte Bego, grazie alla recente scoperta di precisi orientamenti astronomici di alcune incisioni rupestri risalenti all’Età del Bronzo, può anch’esso senz’altro considerarsi come uno dei più vasti e importanti santuari dedicati nell’antichità al culto del Toro celeste e della dea Terra.
Alcuni notevoli orientamenti astronomici delle incisioni rupestri del Monte Bego, secondo un’ipotesi scientifica elaborata da Chantal Jègues-Wolkiewiez, sembrano chiaramente indicare che anche la Valle delle Meraviglie e la Valle di Fontanalba, circa 3.700 anni fa, erano un sito privilegiato dai nostri antenati per la comprensione dei fenomeni celesti e l’esecuzione di elevati rituali religiosi ad essi correlati. Crocevia importante delle grandi culture mediterranee e probabile nodo delle rotte commerciali dell’Europa antica tra Sud e Nord e tra Est ed Ovest, ancora luogo di passaggio documentato in epoche storiche (Pierre de Montfort), è soltanto una delle ormai sempre più numerose testimonianze a vocazione astronomica la cui diffusione e frequenza sono attestate in Europa anche da recenti scoperte. In quest’ultimo scorcio d’estate è stato individuato a Gosek, in Germania, il più antico osservatorio astronomico oggi conosciuto, una costruzione in legno, risalente al 4.900 a.C. e antecedente quindi di quasi 2.000 anni quella, in blocchi di pietra, di Stonehenge, in Inghilterra. Il disco di bronzo ornato da decorazioni in oro, scoperto a Nebra, a soli 25 km da Gosek, risalente al 1.600 a.C., non comparabile a nessun altro oggetto negli annali dell’archeologia, rappresenta a sua volta la più antica raffigurazione realistica di oggetti e fenomeni astronomici, individuati da elementi presenti sul disco e da analoghe strutture dell’osservatorio di Gosek, riunendo in un solo manufatto funzioni sia rituali, indicate dalla raffigurazione della barca che - secondo gli antichi - trasportava il dio del Sole nel suo viaggio notturno, che di strumento di previsione astronomica. Queste realizzazioni dovute a popolazioni europee di allevatori e agricoltori del Neolitico e dell’Età del Bronzo sembrano mostrare conoscenze astronomiche, e una diffusione delle stesse, finora assolutamente insospettate. L’esistenza di una fitta rete di luoghi dedicati, nell’antichità, all’osservazione della volta celeste appare ormai sempre più evidente. In Africa, il sito megalitico di Namoratunga II (o delle “pietre persone”, situato a 25 km dalla riva occidentale del lago Turkana, in Kenia, e a meno di 100 km dal sito gemello, Namoratunga I, quest’ultimo a vocazione unicamente sepolcrale e cultuale), presenta numerosi allineamenti con stelle [19 colonne in pietra erano allineate con gli azimut di stelle singole (Aldebaran, Bellatrix, Saiph (K Orionis), Sirio) o di associazioni stellari (Pleiadi, Cintura di Orione, Triangolo), ed i mesi (Bittottessa, Camsa, Bufa, Wacabajjii, Obora Gudda, Obora Dikka, Birra, Cikawa, Sadasaa, Abrasa, Ammaji, Gurrandala) erano identificati, nella prima metà dell’anno, in successione, dal sorgere della Luna nuova nelle stesse posizioni di queste stelle, o gruppi di stelle (Triangolo, Pleiadi, Aldebaran, Bellatrix, Cintura di Orione insieme a Saiph, Sirio), sull’orizzonte (cioè quando la Luna aveva la loro stessa declinazione), e, nella seconda metà, dalle stesse relazioni di coincidenza tra l’azimut del punto di levata del Triangolo (Beta Trianguli) e quello delle fasi (sinodiche) calanti della Luna a partire dal plenilunio], nella posizione che, per il fenomeno della precessione degli equinozi, esse avevano, al loro sorgere, esattamente 2.300 anni fa (cfr. B.M. Lynch e L.H. Robbins: “The First Archaeoastronomical Evidence in Sub-Saharan Africa" in Science, 200-766, 1978), utili alla definizione di un calendario luni-stellare (il Borana, dal nome della tribù boscimane che realizzò il complesso megalitico) che divide un anno di 354 giorni in 12 mesi e che, pur non corrispondendo alle stagioni ed essendo quindi privo d’importanza per l’agricoltura di queste popolazioni che vivevano del resto presso l’equatore, testimonia una notevole capacità, da parte degli antichi, di compiere accurate osservazioni dei movimenti degli astri e delle costellazioni. La spedizione, effettuata nel Luglio 1998 in Malì, dagli etnologi Germaine Dieterlen e Jean Rouche e dall’astrofisico Jean-Marc Bonnet-Bidaud, ha ormai definitivamente accertato che anche gli Habe, ovvero gli antichi Dogon, una popolazione che vive attualmente sull’altopiano di Bandiagara e forse discendente dagli antichi Egizi, erano dotati di straordinarie conoscenze astronomiche (conoscenze risalenti ad oltre 5.200 anni fa e fornite loro da Nommo, un anfibio inviato da Sirio a beneficio dell’umanità e del tutto simile a certe creature presenti anche nelle leggende appartenenti a molte altre antiche civiltà), specialmente sulla stella Sirio (di cui conoscevano l’appartenenza a un sistema triplo di stelle molto particolari, riguardo a densità, orientamento ed eccentricità delle orbite, ma note già nella loro cosmogonia che conserva anche il ricordo di cambiamenti di colore di “Po-Tolo” o “Po-Digitaria”, di cui festeggia la rivoluzione orbitale attorno a Sirio con la festa di “Sigui” che si svolge ancora oggi ogni 50 anni, e “Emma Ya” o “Sorgo”, la terza componente del sistema attorno alla quale graviterebbe, sempre secondo la tradizione, il pianeta di origine dei Dogon), impossibili da ottenere senza disporre di modernissimi strumenti, e possedevano anche quattro calendari (per il Sole, la Luna, Sirio e Venere) e un formidabile osservatorio, costituito da enormi blocchi di pietra traguardati da una finestrella aperta in una grotta, che regolava il ciclo delle stagioni (cfr. film: “Sirius, l’étoile Dogon” di Jérome Blumberg, 1999, CNRS Images – Média – FEMIS – durata 28 min,). Troppo numerose e ben documentate, per essere qui di nuovo enumerate, le tracce lasciate da antichi astronomi anche sul continente americano, testimonianza di un tempo in cui religione e astronomia erano intimamente connesse (cfr. Giuliano Romano: “Mio padre è il cielo – Segni dell’antica astronomia nord americana", CLEUP Editrice, 1998 e Edoardo Proverbio: “Archeoastronomia – Alla ricerca delle radici dell’astronomia preistorica”, Nicola Teti Editore, 1989). Recentemente, su una rivista, è apparso l’annuncio di un’importante scoperta archeoastronomica: sotto le sabbie del Sahara sarebbe sepolta una seconda Stonehenge i cui affioramenti, enormi blocchi di basalto solo parzialmente visibili in una foto, lasciano pensare che si tratti in realtà del più grande osservatorio astronomico dell’antichità. Durante il Convegno internazionale “Archaeoastronomy: a debate between archaeologists and astronomers looking for a common method”, svoltosi a San Remo nel 2002, fu annunciata la scoperta, questa volta su un altopiano armeno, di un notevole e antico sito megalitico anch’esso a carattere astronomico e che presenta molte interessanti peculiarità. I possibili orientamenti astronomici delle incisioni rupestri presenti sul Monte Bego sono stati oggetto di uno studio approfondito. I petroglifi sono presenti sui contrafforti di questa montagna sacra e nelle sue valli alpine, nel parco nazionale del Mercantour, tra i 2.000 e i 2.700 metri di altitudine. Il Prof. Henry de Lumley, che dal 1967 conduce una campagna di ricerca sistematica i cui risultati sono stati informatizzati, ha finora eseguito, col contributo dei suoi collaboratori, in particolare di Odile Romain e Thierry Serres, ai quali mi sono unito nel mese di Agosto del 2000, i rilievi e i calchi di oltre 36.000 incisioni rupestri individuate su più di 3.600 rocce diverse, che fanno, di questo luogo eccezionale, uno dei maggiori centri di culto e di venerazione del dio-toro, sotto le sue diverse manifestazioni, di dio della tempesta (pugnali, alabarde, asce, corniformi) e di dio solare (ruote, spirali, corniformi con corna arrotondate), e della dea-terra (reticolati, orante acefalo corniforme). Nella sua tesi di dottorato, Chantal Jègues-Wolkiewiez ha sottolineato comunque l’esistenza di particolari orientamenti e allineamenti di alcune incisioni rupestri o di associazioni d’incisioni con talune rocce, ognuno dei quali da mettere in stretta relazione con eventi astronomici, che ritmavano ed erano quindi intimamente legati ai riti religiosi che si svolgevano nella Valle delle Meraviglie come in un vasto santuario all’aperto in cui si veneravano, nell’Età del Bronzo, il dio-toro e la dea-terra. Nel caso della stele detta “del capo tribù” (Z VII. G I. R 8), ad esempio, si può notare un’orientazione degli elementi incisi in relazione al sorgere del Sole al solstizio estivo, all’equinozio d’autunno e ad un giorno esattamente intermedio tra queste due date. Essa rappresenta, con ogni probabilità, un memoriale della morte del toro celeste che, per gli uomini della tarda Età del Bronzo antico, durante la quale le incisioni furono realizzate, sembra allontanarsi sempre più dal punto vernale fino a diventare ormai invisibile, nei bagliori del mattino, all’equinozio di primavera. Il sorgere eliaco del toro divino non scandisce più l’arrivo della primavera e i campi arati della dea-terra, orante, non ne sono più fecondati. Anche su questa stele, infatti, come in molte altre rappresentazioni, la testa del dio del monte Bego è trapassata da un’arma. Si tratta quindi di un dio sacrificato o di un dio che deve risorgere apportando il risveglio della natura, sul quale si è però imposto, come messaggero dell’arrivo della buona stagione per i lavori agricoli, il dio solare, che annuncia la primavera, in modo intelligibile ormai solo per i pochi iniziati ai misteri celesti, con l’equinozio primaverile, quando il suo disco si leva in prossimità della stella delta dell’Ariete, in una costellazione non altrettanto suggestiva, per l’immaginario collettivo o per il significato religioso che poteva essere attribuito a questo asterisma dagli uomini dell’Età del Bronzo, di quella del Toro. A questi uomini, il Sole primaverile sembrava spingere il Toro divino, che essi qui adoravano come attestano le migliaia di incisioni corniformi eseguite sulle rocce di questa montagna, in una perenne e irreversibile caduta, che lo portava a sorgere sull’orizzonte sempre più in ritardo col passare degli anni. Fino a indurli ad abbandonare definitivamente questo luogo di venerazione già intorno al 1.500 a.C., epoca in cui le nuove incisioni cominciano effettivamente a farsi più rare, proprio in coincidenza con la morte simbolica del toro celeste, che per loro era stato, da sempre, annunciatore del ritorno della dolce stagione e della fecondità della terra. La disposizione delle figure incise su questa stele le conferisce anche una certa unità di composizione. Le incisioni sono, infatti, tutte disposte verticalmente e parallelamente ad alcune fessure in essa presenti, seguendo l’asse longitudinale della pietra che è anche evidenziato dalla raffigurazione di due pugnali allineati. Nella metà sinistra della stele, dal lato della montagna, vi è la raffigurazione del dio del monte Bego (riconoscibile dai piedi rivolti verso l’interno); nell’altra metà, che è anche quella più a valle, troviamo invece reticolati, simbolo dei campi arati, e figure di antropomorfi oranti (con i piedi rivolti verso l’esterno ad attestare la loro appartenenza al mondo reale), corniformi e pugnali. Ricorrenze di associazioni di incisioni di questo tipo, in cui, ad esempio, sono presenti, da una parte, il dio del monte Bego o, al suo posto, uno zig-zag diretto verso il basso, e, dall’altra, un orante con le braccia alzate e i piedi rivolti verso l’esterno, non disgiunte da incisioni a forma di reticolo o da alveoli nella roccia, sono abbastanza frequenti, e, come vedremo successivamente, si trovano anche sulla roccia detta “dell’antropomorfo con le braccia a zig-zag” e “dell’orante acefalo corniforme”. Esse rappresentano quindi rituali significativi e peculiari di questi luoghi. Anche dai 1224 disegni sulla roccia detta “dell’altare”, uno studio statistico permette di estrarre, dalla ripartizione delle incisioni, il significato simbolico che esse dovevano possedere inducendo questi antichi popoli a rappresentare quasi tutte le alabarde a Nord, ove c’è anche una maggior frequenza di pugnali, mentre i reticoli sono invece stati concentrati a Sud e i traini, o aratri, a Nord Ovest. L’asse longitudinale della stele “del capo tribù”, contrassegnato da due pugnali allineati e diretti in verso opposto, individua esattamente il meridiano locale, che corre nello stesso senso in cui, nelle immediate adiacenze, scorre anche il ruscello in mezzo al quale si trova la stele. Per una notevole coincidenza, lo stesso meridiano che passa per la stele “del capo tribù” attraversa anche, a Nord, la roccia “dell’altare” e, a Sud, la roccia “della ruota”. Queste tre rocce sono certamente tra le più emblematiche presenti sul sito e tutt’e tre presentano sicuri riferimenti astronomici. La parte superiore della faccia incisa sulla roccia “del capo tribù” risulta modificata da tre grosse scheggiature abilmente eseguite una sull’altra e che conferiscono alla pietra stessa un particolare aspetto corniforme. Penetrando da una di queste scanalature, quando, al solstizio estivo, il Sole si leva intorno alle ore 8.20 al di sopra del monte Bego, ad un’altezza di circa 35° gradi sull’orizzonte e raggiungendo allora un azimut di 90°, i suoi raggi colpiscono la mano sinistra del “capo tribù”, subito prima d’illuminare, con luce radente, tutta la faccia incisa di questa roccia. Verso il 6 Agosto, a metà cioè tra il solstizio d’estate e l’equinozio d’autunno, alle ore 9.35 il Sole, seguendo il profilo della montagna, sorge sopra il monte Bego ad un’altezza di 43,5° sull’orizzonte con un azimut di 112° illuminando, attraverso una delle scanalature, il grande pugnale che, situato in prossimità dell’asse longitudinale della stele, a ricordare che metà del tempo è trascorso, punta esattamente verso lo stesso azimut. Alle ore 9.05, quando il Sole si leva a 28.5° di altezza raggiungendo l’azimut di 121° nel giorno dell’equinozio di autunno, è il grande pugnale con lo stesso azimut ad essere, questa volta, illuminato per primo. La stele “del capo tribù”, quindi, oltre ad essere un memoriale della morte del toro celeste, è anche un vero e proprio calendario astronomico che permette di conoscere con esattezza le date d’inizio e di fine della stagione d’occupazione della vallata. La roccia “dell’altare” (Z XI. G 0) è un vasto costone roccioso, dislocato a quota elevata, in prossimità della cima, dalla quale scende, in leggero declivio, all’interno di un grandioso circo naturale. Seguendo la deriva dell’antico ghiacciaio che ne ha modellato la superficie, un enorme blocco di granito, all’apparenza di origine erratica, si è arrestato e adagiato poco prima di raggiungere l’estremità occidentale di questo costone roccioso, orientato da est ad ovest, sovrastando, in questa posizione, una piccola cavità dalla quale due lunghe e strette fenditure puntano verso il cielo: la prima verso Sud-Est, in direzione del punto dell’orizzonte ove qui il Sole sorge all’equinozio d’Autunno e la Luna nel giorno dell’ultimo plenilunio prima di tale equinozio; la seconda verso Sud, in direzione del meridiano locale che, più a valle, incontra anche le rocce “del capo tribù” e “della ruota” solare. Esistono indicazioni che l’apertura verso Sud-Est presente nella roccia possa essere stata eseguita intenzionalmente. I numerosi pugnali incisi sulla roccia “dell’altare” puntano infatti proprio in direzione del sorgere del Sole all’equinozio d’Autunno e la loro esecuzione potrebbe precedere e preludere quella della fenditura nella roccia, corrispondendo quindi a un periodo di osservazioni necessario a definirne la direzione con la dovuta accuratezza. Intorno all’equinozio d’Autunno i raggi del Sole e quelli della Luna piena illuminano entrambi il fondo della nicchia, non diversamente da quanto accade, sempre durante gli equinozi, nel tempio, di poco più tardo, di Ramsete II ad Abu Simbel, nel Sud dell’Egitto, ove i raggi solari, penetrando dall’ingresso dell’edificio scavato nella roccia, colpiscono esattamente, e in successione, i volti di quattro statuette, immagine del Ka, poste nel naos all’altra estremità dell’asse centrale, lungo ben 63 metri, di questo santuario rupestre. Nella nicchia della roccia “dell’altare” del monte Bego si fondono però simbolicamente, e ancor più sorprendentemente, la Luna e il Sole a rappresentare l’unione feconda tra il cielo e la terra, contemplata da quasi tutte le culture arcaiche. La finestrella orientata verso Sud indicherebbe inoltre la capacità, che in modo sorprendente questi antichi osservatori mostrano già di possedere, d’individuare con precisione il punto di culminazione degli astri, dato che non era certamente loro possibile tracciare il meridiano in altro modo, utilizzando ad esempio punti di riferimento posti sull’orizzonte, che qui mostra anzi un profilo molto frastagliato, essendo anche l’unico osservatorio dell’antichità finora conosciuto situato in altitudine. La roccia “dell’altare” costituisce dunque un formidabile telescopio lunare e solare atto a determinare con precisione il giorno dell’equinozio, ed è anche il primo esempio di strumento dei passaggi risalente addirittura all’Età del Bronzo. La roccia “della ruota” (Z VI. G II. R 7A faccia a), interpretata come un cerchio radiante a otto raggi, è senz’altro, insieme ad altri rinvenuti nella regione del Bego, un simbolo solare in tutto simile a quelli raffigurati anche sulle rocce di Bohuslän, in Svezia e risalenti al XVII° secolo a.C.. Tale incisione rappresenta una figura antropomorfa realizzata contrapponendo per la base due corniformi dei quali quello superiore si richiude su se stesso formando così una ruota, completata a sua volta da otto raggi, che simbolizza non più soltanto il Toro celeste ma, in questo caso, anche il dio Sole. Tuttavia, un’ulteriore interpretazione di questa incisione è possibile considerando il valore duale che i simboli solari possono assumere nelle culture arcaiche e che prima è stato evocato a proposito dell’unione feconda tra la Luna e il Sole. Assumendo quindi che tale disco possa rappresentare l’astro notturno, quella che è disegnata sulla roccia “della ruota” potrebbe essere una mappa raffigurante l’aspetto del cielo, visibile verso Sud, in direzione del meridiano celeste. In effetti, è possibile riconoscere, nelle figure che formano l’incisione, la caratteristica forma della costellazione dello Scorpione che, sovrastata dalla Luna, si prolunga, ad inglobarla in un unico disegno, nella costellazione del Sagittario fino forse a lambire anche quella del Capricorno. Alla destra della costellazione dello Scorpione, nel punto in cui tra il Giugno e il Luglio del 1719 a.C. furono ripetutamente visibili le occultazioni lunari del pianeta Giove, è collocato un reticolo di forma circolare; benché generalmente sia ammesso che i reticoli identifichino i campi arati, esso potrebbe qui rappresentare un abbozzo di mappa del cielo, ripartita in 16 caselle in alcune delle quali sarebbero state incise delle stelle, sotto forma di coppelle. Una incisione rupestre con sembianze antropomorfe, detta “l’antropomorfo con le braccia a zig-zag” (Z IV. G III. R 16 D. n° 13), a 2.470 metri di altitudine, è oggi interpretata, secondo le recenti teorie etnoastronomiche di Chantal Jègues-Wolkiewiez, come la raffigurazione della sovrapposizione del disco lunare e di quello solare circondati dal caratteristico alone di luce che si osserva proprio durante le eclissi. Tale figura rappresenta quindi un’eclisse di Sole che è possibile datare al 27 Maggio 1.711 a.C., quando, sul Monte Bego, dalle ore 7.18 alle ore 9.51, se ne verificò una, quasi totale, di magnitudine 0.985, ben visibile, con il Sole, al culmine del fenomeno, ad un’altezza sull’orizzonte di 46.1°. Conoscendo, da considerazioni e comparazioni stilistiche e di patina, la datazione approssimativa di un’incisione rupestre, con un programma informatico, SkyMap Pro 7, impostando le coordinate del luogo, è allora possibile determinare con esattezza il momento del verificarsi e le circostanze locali degli eventi astronomici rappresentati in quel periodo. L’epoca alla quale si verificò l’eclisse raffigurata su questa incisione rupestre coincideva inoltre con il levare eliaco della costellazione del Toro, che sembra aver avuto, proprio in questo luogo, a giudicare almeno dal numero di rappresentazioni corniformi qui presenti, un particolare e notevole potere suggestivo ed evocativo. L’eclisse avviene nella costellazione dei Gemelli, che sorge immediatamente dopo quella del Toro. La falce che la Luna determina sul disco solare al momento dell’eclisse, col progredire del fenomeno, assume un aspetto sempre più simile ad una figura corniforme come quella richiamata dalle grandi corna del Toro celeste, in quell’anno dominate dalla sfolgorante e ineffabile presenza di un astro errante, il pianeta Saturno. Le due figure corniformi che si disegnano, dunque, a breve distanza l’una dall’altra, sullo sfondo del cielo di quella lontana primavera, sono anche straordinariamente opposte, l’una contro l’altra, per poi divenire concordi, allineate a puntare nella stessa direzione, al termine dell’eclisse, quasi si trattasse di due corniformi simili, uno più grande e l’altro, più piccolo, all’interno del primo, come accade anche per molte delle figure corniformi qui incise sulle rocce. Questa figura antropomorfa, con la testa discoidale interamente picchiettata e circondata da un cerchio che richiama un alone solare, un corpo stilizzato, molto stretto e allungato, che, nella parte inferiore, si sovrappone ad un reticolato e lungo il quale scendono due braccia verticali a zig-zag che terminano con le dita divaricate, è accompagnata, sulla stessa roccia, da un’altra figura antropomorfa acefala, di sesso femminile, incisa sulla parte più a valle e quindi più vicina ai campi coltivati delle popolazioni dell’Età del Bronzo, formata dall’accostamento, con le basi affiancate, di due corniformi opposti, dei quali, quello superiore, è dotato di braccia levate, in posizione d’orante, che hanno permesso di attribuirgli il nome di “orante acefalo corniforme” (Z IV. G. III R 16 D. n° 20). Il dio del Bego, tauromorfo, signore della folgore e della tempesta, e la dea madre, spesso simboleggiata da reticoli, che richiamano le divisioni parcellari, come quello sovrastato dall’antropomorfo con le braccia a zig-zag, ma rappresentata anche, come in questo caso, nella regione del Monte Bego, dall’orante acefalo corniforme, formano le due divinità della coppia primordiale. Molte delle incisioni rupestri del Monte Bego raffigurano il dio della tempesta sotto forma di un antropomorfo che generalmente tiene un pugnale con ognuna delle mani, simboleggiando l’atto di brandire la folgore. Nell’antropomorfo aureolato con le braccia a zig-zag, due piccoli pugnali identici, posti però a prossimità della figura, evocano, anche qui, gli attributi del dio della tempesta e signore della folgore. Un’arma, simboleggiata da un segno claviforme simile a un’ascia, che appare anche in altre rappresentazioni antropomorfe ma più spesso sottoforma di pugnale a lama triangolare, è conficcata nella testa aureolata a sottolineare il sacrificio di un dio che deve risuscitare con il rinnovarsi della vegetazione. Alla sua destra, la dea terra, assimilazione simbolica tra la forza creatrice della donna e la terra lavorata, fecondata dal dio della pioggia, che essa rappresenta, tiene le braccia alzate per ricevere la semenza del cielo dal dio antropomorfo dispensatore della pioggia celeste. Secondo quanto riferito da Henry de Lumley nei libri citati anche nella bibliografia essenziale, l’etimologia attribuita da storici e archeologi al nome del monte Bego ha senz’altro origini antiche e diverse dalle quali emerge però un unico significato attribuibile al termine “Be”, che designa la montagna sacra e il dio-toro. Il secondo elemento “Go” o “Gê”, che compare anch’esso nel nome, costituisce un rafforzativo del significato primario, designando rispettivamente ora il bue, il toro e il dio-tauriforme ora la vacca e la dea-madre. Col tempo, quindi, si sarebbe persa la sfumatura di significato tra i due termini riuniti nello stesso toponimo. Il monte Bego, al pari di ogni altra montagna sacra presente nelle culture tradizionali, è situato al centro di paesaggi grandiosi nel punto d’incontro ideale tra il cielo e la terra ed è perciò l’ombelico del mondo così come, nella tradizione indiana, lo era il monte Beru, nel cui nome ritroviamo gli stessi elementi semantici. “Bêl” era anche il nome del potente signore del vento, e importante dio cosmico con fattezze taurine, dei sumeri e dei babilonesi. Presso i popoli semiti, Ba’al era il dio della tempesta e della fecondità. Nelle province del Sud dell’India, da sempre, fin dall’epoca predravidica, il termine “Ko” è utilizzato per designare i bovidi ma anche il cielo, la folgore o l’acqua. Nell’elevata lingua sanscrita, propria della cultura braminica, “goû” significava toro, potenza, coraggio. Presso gli Assiri e i Sumeri, con significati molto simili, troviamo il termine “gu”. I Greci, a loro volta, veneravano “Gaia” o “Gê”, la dea-terra, il cui nome sembra provenire dal sanscrito “gô” (terra) o “goth” (provincia) e prendere, in seguito, per estensione, il significato di dio o divinità, assumendo, nelle lingue indoeuropee, le forme, più recenti, “go”, “got” o “god”. La scrittura ideografica del monte Bego è basata su quattro grandi categorie d’incisioni rappresentative. I corniformi rappresentano circa il 46% del totale delle incisioni e addirittura il 79,8% tenendo conto soltanto di quelle significative; i corniformi dotati di appendici laterali sono piuttosto rari, meno dello 0,2%, mentre quelli che formano associazioni di corniformi [con i corpi opposti e le basi in comune assumendo allora le sembianze di un antropomorfo orante con le braccia alzate e le gambe divaricate; affrontati per le corna; affiancati (cfr. figura); imbricati l’uno dentro l’altro; distribuiti in modo casuale ma sempre in associazione fra loro; riuniti a due o a quattro da una barra trasversale a formare un giogo talvolta prolungato da un aratro] sono abbastanza numerosi e nel caso dei gioghi costituiscono l’1,5% dell’insieme delle incisioni significative e il 2,5% dei soli corniformi. Le raffigurazioni di armi e utensili sono anch’esse molto numerose sul Monte Bego, ove rappresentano il 4% dell’insieme delle incisioni e il 7,2% di tutte le incisioni significative. Esse rivestono inoltre una notevole importanza per la datazione delle incisioni attraverso il confronto con armi della stessa età scoperte in questo o in altri siti archeologici e sono classificabili in varie categorie che comprendono pugnali di diversa fattura, in quantità superiore al 5,5% dell’insieme delle figure significative, alabarde, da considerare nella maggior parte dei casi falci o altri strumenti agricoli, pari a circa l’1,5% dei simboli rappresentativi, e, nei restanti casi, falcette, asce, armi e utensili diversi e, infine, claviformi a manico rettilineo e leggermente incurvato come quello rappresentato conficcato nella testa dell’antropomorfo con le braccia a zig-zag. Le figure antropomorfe, per quanto suggestive, rappresentano però soltanto lo 0,2% delle incisioni e lo 0,5% di quelle significative. Le figure geometriche, formate da figure radianti, come le stelle, piuttosto rare nella regione del Bego, o da ruote, sono anch’esse poco frequenti. Forme geometriche più semplici, come cerchi e rettangoli, sono invece abbastanza frequenti costituendo ben il 35% delle incisioni comprese in questa categoria. Le figure geometriche più diffuse, il 48% del totale, sono tuttavia i reticolati, di diversa forma, grandezza e fattura. Spesso i reticolati sono associati a un corniforme o a un’arma, pugnale o alabarda, o a una figura antropomorfa. Nel’insieme, le figure geometriche costituiscono il 7% del totale delle incisioni e il 12,5% di quelle rappresentative. Le figure non rappresentative formano da sole il 42,8% del totale. Le tecniche utilizzate per eseguire le incisioni sono state studiate da numerosi specialisti sia per mezzo del microscopio binoculare che di quello a scansione elettronica sia ricorrendo anche alla sperimentazione. Alcune delle incisioni, in particolare quelle raffiguranti dei pugnali, sono state realizzate tracciandone dapprima il contorno, forse seguendo con una lama o con una punta fine di metallo il profilo di un vero pugnale accostato alla roccia, e scolpendo in seguito a coppelle, mediante pressione e rotazione di una punta tenera in quarzo, l’intera superficie da incidere. In altri casi, come in quello ad esempio della stele “del capo tribù”, i contorni dei petroglifi sono stati invece eseguiti allineando in successione una serie di piccole coppelle. Anche questo particolare permette di attribuire la stele ad uno stile diverso e più elaborato rispetto agli altri maggiormente diffusi nella regione del Bego. Le coppelle possono essere più o meno rotonde con diametri tra 1 e 5 mm e profondità tra 0,5 e 5 mm. Alcune, per la verità molto rare, ottenute tramite martellamento, hanno una forma piuttosto allungata, con una dimensione, nel senso della lunghezza, fino a 6 o 7 mm. Le coppelle possono anche essere sia sovrapposte che disgiunte e la superficie dell’incisione può presentare, in taluni casi, anche una parziale raschiatura; le dimensioni, la forma e la loro distribuzione permettono d’individuarne quattro stili di esecuzione: lo stile A, caratterizzato da coppelle piccolissime e regolari e da un’incisione con superficie liscia; lo stile B, con grandi coppelle e una superficie increspata e abbastanza regolare; lo stile C, in cui le coppelle diventano grandi e distanziate e l’insieme risulta abbastanza irregolare; lo stile D, denotato da coppelle allungate e distanti l’una dall’altra. In talune incisioni, lo stile B è sovrapposto allo stile A e, in altre, si osservano aggiunte in stile C ad opere realizzate in stile B o A; sembra quindi possibile stabilire l’anteriorità dello stile A rispetto allo stile B e di questi rispetto al C, più recente. La scelta del supporto roccioso per eseguire le incisioni è sempre caduta, senza eccezioni, sulle arenarie rosa e viola del Permiano levigate dai ghiacciai del Würm sia che si presentassero sotto forma di grandi spuntoni di roccia o di blocchi isolati. L’intera estensione ricoperta dalle rocce che presentano incisioni (dell’Età del Bronzo ma anche di epoche più recenti) è suddivisa in 23 zone numerate da 0 a XXII, che individuano, geograficamente, 7 regioni: delle Merveilles (zone da 0 a XII), di Valaurette (zona XIII), di Valmasque (zona XIV), di Fontanalba (zone da XV a XIX), del passo del Sabion (zona XX), del lago Sainte-Marie (zona XXI) e del lago del Vei del Bouc (zona XXII); ogni incisione è individuata esattamente oltre che dal numero della zona (contrassegnato con Z.) anche dai numeri del gruppo di rocce (G.) e della roccia (R.) ai quali appartiene e, infine, dal proprio numero di disegno (D.) che le è attribuito, in successione, durante l’operazione di schedatura e inventariazione sul terreno. Nella valle delle Merveilles, che da sola conta oltre 17.000 incisioni tra le quali sono incluse anche la maggior parte di quelle antropomorfe presenti nella regione del Bego, la disposizione delle rocce incise sembra seguire l’andamento dei valloni, naturalmente convergenti verso il picco delle Merveilles, mentre nella valle di Fontanalba, ove i corniformi sono invece più numerosi, le incisioni appaiono più frequentemente associate ai punti d’acqua. Qualunque sia la zona in cui sono presenti i petroglifi, la superficie sulla quale sono incisi è sempre orientata verso Est o Sud-Est, cioè proprio verso il settore dell’orizzonte più favorevole all’osservazione del sorgere degli astri che culminano a Sud e, in particolare, delle costellazioni zodiacali situate intorno all’eclittica. Nei limpidi cieli d’alta quota, poter contemplare, dal Rifugio dei Sapienti, ad oltre 2.225 m di altitudine, totalmente immerso nella vastità dello spazio, il sorgere e lo stazionare, sospesa a mezz’aria per buona parte della notte, dell’imponente e scintillante costellazione del Toro dietro l’altrettanto impressionante scenario della montagna sacra del Bego, a forma d’immensa cupola sovrastata dall’oscurità, è stata, per me, una meravigliosa ed ineguagliabile esperienza, ricca di fascino e di ammirazione, con la quale ho potuto sicuramente rivivere il sentimento di mistero e di precarietà che doveva albergare nell’anima dei nostri antenati di quei tempi remoti di fronte all’immenso e alle manifestazioni, talora sublimi tal’altra avverse, della natura. Le incisioni rupestri del monte Bego mi hanno davvero introdotto alle relazioni che l’uomo, in questo luogo eccezionale, intratteneva con il trascendente e le forze cosmiche. L’emozione profonda, che si prova solo di fronte ai meravigliosi fenomeni della natura o davanti a opere sublimi frutto dell’intelligenza umana ma che, in queste valli, sono magicamente riuniti in un unico scenario naturale, alla visione del Toro celeste aleggiante sulla sua montagna sacra ancora una volta fedele al suo compito e pronto ad esigere la venerazione dell’uomo, non può che indurre a riconoscere il ruolo che questa costellazione ebbe nel favorire lo sviluppo del pensiero artistico, religioso e scientifico dell’umanità ai suoi albori e rappresenta senz’altro un invito a ripercorrere le fasi più emblematiche dell’immaginario umano fin dall’opera monumentale dell’arte magdaleniana, risalente ad oltre 17.000 anni fa, che ci è pervenuta grazie alle pitture e alle incisioni parietali della grotta di Lascaux. Per mezzo di un’autorizzazione eccezionalmente concessa dal Ministero francese della Cultura, come ricompensa per la scoperta, avvenuta il 9.9.1999, durante i lavori di scavo in un sito paleontologico incredibilmente ricco di fauna risalente fino ad oltre 35.000 anni fa (interstadio del Wûrm recente), di una vasta grotta a concrezioni (La Berbie II), ho avuto il privilegio di poter visitare, già il 10.9.1999, grazie alla straordinaria efficienza delle istituzioni transalpine, questo stupendo e incomparabile monumento, simbolo per eccellenza del patrimonio artistico e culturale dell’intera umanità. Come non riconoscere, proiettata anche nella grande figura bovina che in questo antichissimo santuario orna la splendida cupola della sala dei Tori, riproduzione naturale e altrettanto imponente della volta stellata, l’onnipresente e arcana immagine del Toro celeste che da sempre popola le menti e la psiche dell’Homo sapiens sapiens fondendosi qui, forse come in nessun altro posto, anche con l’idea di grandiosità, di bellezza e di trascendenza proprie di quest’arte antica ma già così perfetta? A ben guardare, in una di queste figure di bovide della sala dei Tori, oltre alla costellazione omonima sembra di poter identificare, dipinti ben 17.000 anni fa, perfino gli ammassi aperti delle Pleiadi e delle Hyadi, quest’ultimo punteggiato tutto intorno all’occhio del toro, che qui rappresenta la stella Aldebaran, alpha Tauri. Sotto le corna del toro, nella posizione comunque corrispondente all’ammasso aperto Cr 65 di magnitudine visuale 3.0, è raffigurata una sorta di cometa capovolta con la testa a forma di croce e una coda effettivamente allargata, mentre l’allineamento di quattro punti, alla sinistra del toro e che mira proprio poco sotto il suo occhio, pare corrispondere bene alle stelle della cintura di Orione e alla sua nebulosa M 42, anch’essa sicuramente visibile nel cielo limpido di una lontana sera invernale poco prima dell’ultima glaciazione (Dryas), nell’interstadio che soltanto in seguito si sarebbe detto di Lascaux.
Relazione consultabile, in
forme diverse, anche sui seguenti siti web:
http://www.geocities.com/mainnocenti137/Fouilles/MontBego/Monte-Bego.html
http://www.geocities.com/mainnocenti137/Fouilles/MontBego/Monte-Bego.doc.zip
http://www.geocities.com/mainnocenti137/Fouilles/MontBego/Monte-Bego-4500.doc.zip
Mappa della regione del monte Bego con la valle delle Meraviglie e la valle di Fontanalba. © Immagine tratta dal dépliant “Misteriosa Valle delle Meraviglie” realizzato dal Sig. Lancioli, guida con fuoristrada a trazione integrale.
Roccia detta “dell’antropomorfo con le braccia a zig-zag” e “dell’orante acefalo corniforme” (Z IV. G III. R 16 D).© Immagine tratta da Henry de Lumley – Le Mont Bégo: vallées des Merveilles et de Fontanalba – Guides archéologiques de la France – Editions Imprimerie Nationale, 1996, pag. 89.
© Immagine tratta da Henry de Lumley – Le Mont Bégo: vallées des Merveilles et de Fontanalba – Guides archéologiques de la France – Editions Imprimerie Nationale, 1996, pag. 88, a sua volta tratta da L’Anthropologie (Paris), Tomo 94, 1990, n° 1, pag. 59.
Il Prof. Henry de Lumley e Jane Begin-Ducornet mentre esaminano insieme le incisioni presenti sulla Roccia “dell’Altare” (Z XI. G0). © Immagine tratta da Henry de Lumley – Le Mont Bégo: vallées des Merveilles et de Fontanalba – Guides archéologiques de la France – Editions Imprimerie Nationale, 1996, pag. 22.
Rilievo delle incisioni osservate sulla roccia detta “dell’Altare” Z XI. G0). © Immagine tratta da Musée des Merveilles, Tende, Alpes-Maritimes – Carnet du Visiteur – Conseil Général des Alpes-Maritimes, pag. 9.
La roccia "della Ruota" (Z VI. G II. R 7A). © Immagine tratta da Pedro Lima – La vallée des étoiles – Ciel & Espace, n. 356, Gennaio 2000, pagg. 58-59.
Rilievo di ruota solare a otto raggi (Z VI. G II. R 7 A). © Immagine tratta da Henry de Lumley – Le Mont Bégo: vallées des Merveilles et de Fontanalba – Guides archéologiques de la France – Editions Imprimerie Nationale, 1996, pag. 96.
Rilievo di un’associazione di 4 corniformi. (Z II. G I. R 1γ) © Marco Angiolo Innocenti
Esempio di scheda di catalogazione per la raccolta dati sul campo (Z II. G I. R 1γ. n. 2). © Marco Angiolo Innocenti
© Foto di Ray Delvert dalla
copertina del libro di Brigitte et Gilles Delluc (U.A. 184 du C.N.R.S., Musée
de l’Homme, Paris) – Connaitre Lascaux – Editions Sud Ouest, 1989.
©
Tavola tratta dal libro di Brigitte et Gilles Delluc (U.A. 184 du C.N.R.S., Musée
de l’Homme, Paris) – Connaitre Lascaux – Editions Sud Ouest, 1989.
Questa tavola riassume i diversi tipi degli oltre 400 segni simbolici individuati a Lascaux secondo la classificazione di Leroi-Gourhan: 1, bastoncelli unici o multipli, paralleli; 2, segni ramiformi; 3, segni a ventaglio e “a capanna”; 4, segni impilati; 5, segni quadrangolari; 6, segni claviformi; 7, punteggiatura diversamente raggruppata; 8, segni probabilmente derivati dal segno a stella (al centro). Simboli simili compaiono anche in numerose altre grotte ornate e sono indubbiamente di difficile interpretazione dato il loro carattere astratto che potrebbe denotare anche una primitiva quanto semplice, e ancora non fissata rigidamente, forma di linguaggio ideografico.
© Marco Angiolo Innocenti.
Parte dell’equipe di studenti di archeologia diretta dal geologo e paleontologo Dr. Stéphane Madelaine del Museo Nazionale di Preistoria a Eyzies-de-Tayac, ormai giunta a 9 metri di profondità, mentre continua gli scavi nel camino di origine carsica della grotta della Berbie. Un cranio di Mammut, incastrato capovolto a circa 3 metri sotto il livello di scavo visibile nella foto, ha sostenuto il peso dei detriti accumulatisi nel corso dei millenni al suo interno ove è rimasta intrappolata anche la fauna che viveva nell’ambiente naturale circostante alla fine delle ultime grandi glaciazioni. Dalla grotta della Berbie, alla quale si accede da un’altra stretta apertura nella roccia, posta molto più a valle, si arriva, attraverso uno strettissimo e impraticabile budello lungo diversi metri, fin sotto il cranio del Mammut. Nella foto, sullo sfondo, illuminata da una lampada, è già visibile la sommità della diaclasi che, solo pochi giorni più tardi, liberata dai detriti che l’ostruivano, avrebbe rivelato l’esistenza di un’altra vastissima grotta con bellissime e numerose concrezioni subito denominata la Berbie II. Come già all’interno del camino anche tra i detriti che ingombravano la diaclasi sono state rinvenute numerose ossa e, appena oltrepassata, non senza difficoltà, la stretta apertura nella roccia, anche lo scheletro completo e perfettamente conservato di una iena, adagiato all’interno di un cerchio naturale di pietre delle stesse dimensioni dell’animale. Questa circostanza insieme a copiose tracce di nerofumo individuate sulle pareti in diversi ambienti della grotta, anche in considerazione della vicinanza con altre grotte ornate, ha subito attirato l’immediata attenzione dei massimi esperti francesi che hanno però attribuito entrambe a cause naturali. L’unico animale della fauna preistorica locale mancante all’appello (sono stati ritrovati anche numerosi volatili) è stato l’orso, evidentemente troppo scaltro per farsi intrappolare in una gola carsica. La grotta della Berbie II, esplorata in cordata, si è rivelata molto vasta e presenta molti ambienti diversi e anche interessanti concrezioni sotto forma di splendide velature bianche di carbonato di calcio che scendono dalla volta oltreché di stalattiti e stalagmiti in alcuni casi congiunte a formare un tronco. In un’ampia cavità della grotta il suolo, interamente costituito, senza soluzione di continuità, da un’unica lastra bianca di carbonato di calcio, evidentemente di un certo spessore, oscillava sotto il nostro peso rivelando così l’esistenza di un ambiente vuoto sottostante sul quale eravamo sospesi, senza sapere per quanti metri, essendo sostenuti soltanto dal sottile strato di concrezione. In un altro settore della grotta, una parte del suolo era evidentemente sprofondata di alcuni metri trascinando nella caduta anche lo strato di concrezione che un tempo doveva ricoprirlo; tuttavia, in buona parte, dove il fenomeno era stato forse meno violento, esisteva ancora lo strato di concrezione, ormai sospeso a mezz’aria ma che doveva essersi formato a contatto con il suolo, prima che questo franasse, conservandone quindi, nella struttura cristallina del carbonato di calcio, l’andamento originario. La grotta presenta almeno due lunghi e stretti corridoi in leggera salita, oggi ostruiti da materiale franato, e a rischio di crollo, ma che, una volta, dovevano aprirsi verso l’esterno in corrispondenza della parete verticale della falesia rendendone quindi improbabile ogni frequentazione anche in epoche remote, come del resto sembra indicare l’assenza di ogni reperto di origine antropica (soltanto una selce è stata trovata nel camino, o dolina a inghiottitoio).
@ Marco Angiolo
Innocenti.
In posa, dopo la visita concessa a titolo eccezionale dalle autorità francesi a cinque membri dell’equipe del Dr. Stéphane Madelaine, davanti all’ingresso della grotta di Lascaux, vero e proprio santuario dell’umanità che appartiene al patrimonio mondiale ambientale e culturale protetto dall’UNESCO.
© In posa davanti al Rifugio dei Sapienti, parte dell’equipe del Prof. Henry de Lumley che ha svolto attività di ricerca sul campo nel mese di Luglio 2000 e alla quale l’Autore è subentrato con l’equipe che nel successivo mese di Agosto ha proseguito l’attività completando per quanto possibile il lavoro di prospezione, catalogazione e rilievo delle incisioni rupestri prima che l’avvento della brutta stagione rendesse, come al solito, impraticabile il cantiere per molti mesi (per gentile concessione).
© Piano topografico della grotta de “La Berbie” tratta dal Rapporto Finale di Sintesi del Dr. Stéphane Madelaine. Nella planimetria sono visibili all’estrema sinistra l’ingresso della grotta e all’estrema destra la zona corrispondente alla base del camino di origine carsica (dolina a inghiottitoio) nel quale sono stati eseguiti gli scavi paleontologici. Dal camino, ma a una quota più elevata rispetto alla sua base, si accede, attraverso una diaclasi, ad un altro settore della grotta, denominata “La Berbie II”, che si sviluppa a Est e a Sud su un’estensione almeno altrettanto vasta di quella della parte di grotta inizialmente conosciuta e rappresentata in planimetria. Sono in ogni caso evidenti la stessa origine geologica e la contiguità delle due grotte, separate soltanto dal deposito di detriti all’interno del camino verticale di formazione carsica che si sono accumulati per l’erosione superficiale durante lo scioglimento dei ghiacciai alla fine delle ultime glaciazioni del quaternario.
Attestato di partecipazione al cantiere archeologico del Monte Bego
Iscrizione alla campagna archeologica 2000 sul Monte Bego
Autorizzazione a titolo eccezionale. per la visita della grotta di Lascaux