Osservatorio
Astronomico Bellatrix
The Planets - Gustav Holst
di Vincenzo Carlini
La notorietà di Gustav Holst
(1874-1934) è legata in maniera esclusiva al grande affresco sinfonico “The
Planets” anche se tra le composizioni del musicista inglese compaiono
altre opere meritevoli di maggiore attenzione in sede discografica (lodevoli, in
questo senso, i progetti di registrazione integrale delle opere di Holst da
parte della Chandos e della Naxos) e concertistica. Ma, indubbiamente, la forza
visionaria e l’innegabile verve strumentale della “Suite per grande Orchestra”, oggetto di analisi in questo saggio,
giustifica in maniera più che ampia il successo “planetario” dell’opera,
scritta tra il 1913 e il 1917. L’indicazione del periodo di composizione non
è superflua. Infatti la partitura si colloca in un momento particolarmente
fecondo per la storia della musica e destinato a produrre incredibili risvolti
futuri: le novità wagneriane e il patrimonio del romanticismo tedesco sono
ormai di comune dominio; si sono appena affacciate all’orizzonte le radicali
novità del linguaggio musicale che di lì a poco porteranno alla Seconda Scuola
di Vienna (la “Kammersymphonie op. 9”
di Schönberg è del 1906); i “Ballets
russes” di Diaghilev, giunti a Londra nel 1914, portano a conoscenza
dell’auditorio britannico molte composizioni del repertorio contemporaneo
russo e francese che, inevitabilmente, avranno un grosso impatto sul trentenne
Holst. E difatti (come vedremo) le influenze di Stravinsky, di Ravel e di
Debussy, oltre che quelle wagneriane, affiorano continuamente lungo i circa 50
minuti di “The Planets”, senza inficiarne in maniera alcuna l’originalità
e la piena riuscita.
Il punto di partenza per l’idea
della Suite è un viaggio in Spagna che Holst intraprese nel 1913 con il
fratello del compositore inglese Arnold Bax (del quale consiglio l’acquisto
dell’integrale sinfonica disponibile per l’etichetta “budget-price”
Naxos), ovvero quel Clifford Bax che in seguito sarà il librettista
dell’opera di Holst “The Wandering
Scholar”. Particolarmente curiosa è la spiegazione di questo viaggio
nella penisola iberica: una donazione che il nostro ricevette da una persona
rimasta anonima! E, per completare il quadro di mistero che avvolge la vicenda,
bisogna sottolineare un particolare invero non irrilevante (e
l’amico Gianluca ora inorridirà…): Clifford Bax era un appassionato di astrologia e ciò portò
Holst ad approfondire inevitabilmente l’argomento anche se, ad onor del vero,
sembra che il musicista inglese abbia ripudiato successivamente la sua
“debolezza” verso gli oroscopi. Comunque in questo periodo Holst affrontò
di getto la lettura di un libro tra i più importanti in materia, ovvero “The
Art of Synthesis” dell’astrologo e teosofista Alan Leo. In questo testo
sono esposte le diverse connotazioni astrologiche riscontrabili nel
“rapporto” tra gli esseri umani e i pianeti. I diversi capitoli
corrispondono inoltre a ciascun pianeta con l’indicazione di un appellativo
particolare tra cui quel “Neptune, the
Mystic” che ritroveremo proprio come titolo dell’ultimo brano della
partitura in esame. La forte suggestione esercitata da questo scritto spinse il
musicista inglese a riprendere alcuni precedenti schizzi di un gruppo di Sette
pezzi per orchestra e di rielaborarli in modo da creare quella Suite che oggi
conosciamo, appunto, con il titolo di “The
Planets op. 32”.
L’apertura della composizione è
dedicata al pianeta Marte: il grande apparato strumentale impiegato è
indirizzato verso l’applicazione della tecnica politonale unita alla struttura
a blocchi tipica de “Le Sacre
du Printemps”. Le asperità del capolavoro stravinskyano sono però
smussate grazie ad una concezione sinfonica tipicamente tardo romantica. “Mars,
the Bringer of War”
inizia con un ostinato ritmico che è la vera struttura portante del brano: il
pizzicato degli archi e il rombo leggero delle percussioni lo scandiscono in uno
straniato pianissimo che dà il senso di uno sferragliare lontano di armi o
quello di una sghemba parata di scheletri. Su questa base si staglia una fanfara
degli ottoni alternata a piccoli squarci sonori, lievi deflagrazioni
mirabilmente disegnate grazie a contrasti dinamici da manuale fino ad un
crescendo che porta ad un’esplosione dell’ostinato ritmico in fortissimo ed
a piena orchestra contrastante in modo netto con la fissità degli ottoni: è
uno dei momenti memorabili dell’intera partitura per l’effetto di proiezione
spazio-temporale che ne scaturisce, in quanto l’ascoltatore sembra aver
spiccato improvvisamente il volo verso un’altra dimensione. Ritornano poi,
leggermente variati, quei piccoli spunti tematici che frantumavano il corso
della fanfara fino ad un secondo tema, sorta di elaborazione del tema della
fanfara e dell’ostinato ritmico; l’episodio si conclude con un vero e
proprio “crollo” (simile a quelli che s’incontrano in molte sinfonie
mahleriane) per dar vita poi ad una ripresa del crescendo ascoltato in
precedenza ma proposto, questa volta, in tonalità grevi, scure: il tema si fa
avanti strisciando stancamente e acquisendo man mano colori più chiari fino
alla ripetizione di alcuni elementi del crescendo tra cui, senza modifiche
sostanziali, la sua parte conclusiva che anticipa una nuova, violenta esplosione
a piena orchestra dell’ostinato ritmico questa volta però senza l’elemento
di “disturbo” degli ottoni. Si conclude così quella che potremmo definire,
in un’ipotetica forma sonata, l’esposizione dando inizio allo sviluppo degli
elementi motivico-tematici ascoltati fino ad ora. Il momento più interessante
è sicuramente quello della ricomparsa del tema degli ottoni che, dopo il primo
crescendo, creava un attrito con l’ostinato ritmico a piena orchestra: adesso
però (come ribaltamento della seconda “esplosione”) scompare proprio
l’orchestra e, dunque, l’ostinato ritmico stesso, permanendo quindi solo gli
ottoni; viene insomma a mancare proprio quella che abbiamo definito struttura
portante del brano con la delineazione di un paesaggio spoglio, gelido,
immateriale, quasi ligetiano e a cui segue immediatamente un turbinio
fantasmatico di archi e legni (già accennato pochi attimi prima del “crollo”).
Giunge infine la coda con nuove esplosioni a piena orchestra che stravolgono
completamente la forma dell’ostinato ritmico, quasi privato del suo centro di
gravità e distrutto dal suo stesso peso.
In “Venus, the Bringer of Peace” regna veramente un senso di pace, di serenità dopo i toni
aggressivi dell’episodio “marziano” (e marziale), ma anche un tono
estremamente arcadico. Il corno, con la risposta dei legni, crea un’atmosfera
di massima chiarezza, marmorea, algida, un vero paesaggio fuori del tempo,
conducendo il brano verso un tema cullante di straordinaria dolcezza che si
arresta sulla ripetizione accorciata dell’introduzione. Compare quindi un
nuovo tema lirico esposto dai violoncelli (questa volta ascendente a differenza
del carattere discendente del tema cullante) su cui un violino solista (e
successivamente gli archi in tessitura acuta con punteggiature dei legni)
innesta un canto malinconico di grande efficacia emotiva. Segue un secondo tema
(quasi un breve sviluppo del tema precedente) proposto in un dialogo tra gli
archi fino alla ripresa variata con il ritorno del tema cullante (in un impasto
timbrico di preziosa ricercatezza) e del motivo malinconico questa volta
assegnato al violoncello. La coda si basa essenzialmente sul tema cullante che
ora assume un tono quasi di marcia con una veste strumentale d’ineffabile
soavità grazie agli echi del parsifaliano “Motivo
dei Cavalieri del Graal” ed a un’aura impressionistica molto accennata (il
Debussy orchestrale e pianistico fa capolino in parecchi momenti del brano).
“Mercury, the Winged Messenger” si avvia con luminescenze veramente fatate create da incisi
ascendenti e discendenti che rimbalzano da un gruppo strumentale all’altro con
importanti spunti assegnati ai tocchi cristallini della celesta. Un tema di
fanfara cerca di farsi largo ma senza successo fino ad approdare agli archi ed,
infine, alla piena orchestra che lo enuncia in fortissimo ancora una volta, però,
senza troppa enfasi, quasi non tradendo la natura lieve ed aerea del brano. Dopo
la ripetizione, in cui si presentano significative varianti nelle scelte
strumentali, i tintinnanti colpi della celesta corredano la coda, e gli echi
lontani della fanfara, di guizzi saettanti e di grande lievità, degne
evocazioni del messaggero alato.
E’ un turbinoso motivo degli archi
che dà vita, invece, al quarto brano, “Jupiter, the Bringer of Jollity” (il re dei pianeti è collocato esattamente al centro della
composizione), dove campeggia maggiormente una pomposità tipicamente “british”.
I tre temi (di cui il secondo sembra avere il significato di un tema di
transizione) che compaiono nella prima parte presentano una natura folklorica e
campestre dispiegandosi in una grande e gioiosa giostra all’aperto (lontana
anni luce, è il caso di dirlo, dal mondo triviale, diabolico e grottesco
insieme, del sinfonismo e del liederismo di un altro illustre Gustav, Mahler).
La conclusione di questa sezione è preceduta da un interessante intreccio tra
l’ultimo tema ascoltato e l’inciso turbinoso ascoltato all’inizio. Compare
adesso una fanfara che arresta per un attimo il corso del brano fino alla
ricomparsa del primo tema in una versione più calma ed innaturale, quasi privo
di forza. E’ il preludio alla seconda parte che divampa con un tema di
straordinaria eloquenza e nobiltà, elgariano nel suo aplomb,
e noto ai più (in particolar modo agli inglesi) per essere impiegato nelle
cerimonie solenni (tra le altre il Matrimonio Reale di Carlo e Diana e il
funerale di Lady D) come accompagnamento al testo di una poesia di Sir Cecil
Spring-Rice “I vow to thee, my country”.
Ad un’analisi più attenta il tema in questione presenta segrete relazioni con
gli altri temi ascoltati in precedenza (notare, ad esempio, le prime tre note
del secondo tema). La terza parte è una specie di ripresa variata con i tre
temi che si presentano rapidamente in maniera stringata per poi riproporre il
clima della parte iniziale con mirabolanti combinazioni strumentali e con la
successiva ricomparsa dell’inciso introduttivo impiegato, questa volta, come
“sottofondo”. Infine nella coda torna quasi inaspettato il tema “elgariano”,
trasfigurato ed incorniciato dal turbinio iniziale che assume ora sonorità
quasi stridule come anticipazione della perentoria chiusa.
In “Saturn, the Bringer of Old Age” due misteriosi accordi esposti in sequenza discendente da
legni, arpa e celesta in un etereo pianissimo sembrano simboleggiare la
maestosità del ben noto anello che circonda il pianeta. Lentamente prende vita
un tema discendente in tessitura grave pizzicato dagli archi su cui s’innesta
un tema cromatico: la tortuosità suggerita da questo momento è sicuramente
comparabile all’analogo approccio scelto da
Wagner nella Tetralogia per il
“Motivo dell’Anello”. Su questa
base si fa largo un corteo funebre agli ottoni (reminiscenza probabilmente del Dies
Irae gregoriano, vero hit del
romanticismo e del tardo romanticismo, da Berlioz a Liszt fino a Mahler e
Rachmaninov) come simbolo della vecchiaia che avanza e, di conseguenza, della
morte che si avvicina. Gli archi si aggiungono al corteo accrescendone la
drammaticità. L’episodio viene dunque ripetuto dall’inizio ma con varianti
strumentali: i due accordi passano ora ai fiati, con un cupo e sotterraneo
rintocco, fino ad un crescendo dinamico ottenuto per addizione strumentale che
sfocia in un clima parossistico di tensione, intercalato dalle due note estratte
dagli accordi iniziali scanditi dalle campane e, in seguito, dalle trombe, come
un grido di dolore. Tale passaggio conduce direttamente agli ultimi sussulti
dell’episodio che termina in una quiete irreale con le due note che ora
passano agli archi, poi alle tube fino a spegnersi del tutto. Torna quindi
l’atmosfera iniziale ma profondamente modificata, come in un ricordo lontano,
visto che il peso drammatico del “corteo” non poteva non procurare fratture
emotive. Ma sorprendentemente compare un inciso dei legni che evoca i due
accordi iniziali in zone timbriche liquide, sospese e con spiccati tratti
pentagonali (bisogna ricordare che Holst era un appassionato studioso anche
delle filosofie orientali) portando il brano verso la conclusione. La
trasparenza, la serenità che affiora in questa chiusa riporta ancora una volta
alla mente il Parsifal e il “Motivo
del Sacro Graal”. Il riferimento mi sembra interessante anche in
un’ottica analitica wagneriana per sottolineare il peso che le filosofie
orientali, insieme alla teosofia e al vegetarianismo,
hanno esercitato sul musicista tedesco durante la composizione del suo
ultimo capolavoro: cosa che non sempre si ricorda quando si affronta il Parsifal.
In “Uranus, the Magician”,
come giustamente notato da più parti, l’influenza de “L’Apprenti sorcier” di Paul Dukas è notevole. Ma l’ironia
grottesca, ancorché fiabesca, presente nel capolavoro del compositore francese
si tinge nella pagina di Holst di accenti inquieti e più spiccatamente
futuristi. Una fanfara introduttiva è seguita da un’improvvisa esplosione dei
timpani prima della comparsa del ritmo puntato che caratterizzerà l’intero
brano. Su questa base spunta un tema scherzoso elaborato dai vari gruppi
orchestrali fino all’irrompere di un tema spigoloso ai violoncelli, ai corni
e, successivamente, esteso agli altri ottoni: è un tema che ricorda
sorprendentemente alcune movenze bartókiane ma anche analoghi momenti
disseminati nelle partiture di Prokofiev. Un’improvvisa pausa precede lo
scandire minaccioso, come da lontano, dei
timpani fino alla riesposizione del tema scherzoso sottoposto questa volta ad un
grande sviluppo che ne porta in luce le caratteristiche più melodiche ma non
senza spunti ironici (da sottolineare i saettanti guizzi dei legni):
l’impressione che se n’evince è quella di una sorta di trasformazione
alchemica che ha coinvolto il “vecchio” tema scherzoso. Lo sviluppo prosegue
su questi binari fino ad una proposizione del tema a piena orchestra con
l’inesorabile tappeto dei timpani (accompagnati ora dalla sonorità bizzarra
dello xilofono). Dopo quella che sembrerebbe essere una perentoria chiusa
dell’intero brano ecco una nuova invenzione che ci coglie veramente di
sorpresa: tutta l’orchestra sembra tacere ed una sonorità impalpabile,
ottenuta magistralmente con una breve sequenza ascendente accompagnata da un
nascosto glissando dell’organo, ci porta di soppiatto in una dimensione
sconosciuta, nirvanica, dove le emozioni sembrano placate. Concluso questo
singolare episodio ricompare, abbreviato, l’inciso del tema scherzoso fino ad
un vortice provocato dai timpani. La chiusa del brano fa ripiombare
l’ascoltatore nella quiete irreale del tema “nirvanico” con una preziosa
combinazione timbrica di celesta ed arpa.
“Neptune, the Mystic”
conclude l’intera Suite evidenziando un altro debito formale, se non
stilistico, di Holst: quello verso Claude Debussy. Infatti il tema dei legni che
si ascolta nell’introduzione ricorda non poco il “Prélude
à l’après-midi d’un faune” seppur di semplice suggestione si tratta,
vista la maggior spigliatezza e la più aperta mobilità del tema di Holst. Ma
il rimando al musicista francese è ancor più evidente per la presenza nel
brano di un coro femminile “senza parole” che ricorda quello analogo di “Sirènes”
dei Nocturnes: in questo caso il riferimento non ci sembra casuale in
quanto Nettuno è notoriamente una divinità marina come le stesse sirene sono
esseri ibridi che popolano il mare. Occorre però ricordare anche un altro
famoso coro “senza parole”: quello del “Daphnis
et Chloé” commissionato a Maurice Ravel nel 1909 proprio da quei “Ballets
russes” di Diaghilev che, come visto, ebbero un grosso impatto su Holst
nel corso della loro tournée inglese. Il brano è tutto incentrato su uno
strisciante ma sottile tema cromatico e su alcune piccole varianti dello stesso,
illuminato dai colpi della celesta e da intangibili dissonanze che creano
veramente l’idea di una dimensione altra. Il delicato ingresso del coro
femminile, che si appropria del tema e delle sue piccole varianti, suona come un
richiamo lontano proveniente dall’infinito del cosmo: il suo incedere è
incantatorio, ipnotico, con l’effetto di poter ammaliare anche un improbabile
Ulisse dello spazio. La chiusa è ancora più incorporea con il coro femminile
che riduce il tema a sole due note che riecheggiano nel vuoto fino ad
allontanarsi nel nulla con un fenomenale decrescendo dinamico.
Termina così il viaggio holstiano
tra i pianeti con il grande assente Plutone che, come noto, sarà scoperto
soltanto nel 1930. In realtà Colin Matthews ha proposto un completamento della
Suite con l’introduzione di “Pluto,
the Renewer”. Tale idea però non sembra del tutto riuscita considerando
la perfezione dell’”incompiuta” versione di Holst in virtù di sottili
simmetrie musicali e degli spiccati simbolismi che reggono autonomamente
l’intero organismo compositivo senza bisogno di “additivi” innaturali.
Versioni CD di riferimento:
WILLIAM STEINBERG Boston
Symphony Orchestra/New England Conservatory Chorus (+ Richard Strauss: Also Sprach Zarathustra)
Deutsche
Grammophon 463 627-2 G OR (The Originals)
HERBERT VON KARAJAN Berliner
Philharmoniker/RIAS-Kammerchor
Deutsche
Grammophon 439 011-2 G HS (Karajan Gold)
Sir GEORG SOLTI London
Philharmonic Orchestra (+
The Perfect Fool / Egdon Heath)
Decca 440
318-2 D W 0
ANDREW DAVIS BBC SYMPHONY
ORCHESTRA/BBC SYMPHONY CHORUS (+
Egdon Heath)
Apex
0685738908721
Versioni
CD con “Pluto,
the Renewer“:
MARK ELDER The Hallé Orchestra/The
Ladies of the Hallé Choir (+
Lyric Movement for Viola and Chamber
Orchestra, H191)
Hyperion
CDA67270
DAVID LLOYD-JONES
Royal
Scottish National Orchestra/Ladies of RNSO Chorus (+
The Mystic Trumpeter)
Naxos 5.110004
Visitatori di questo sito: dal 30 Aprile 1997.